Femminicidio: dinamiche di conflitto e collasso dell'Identità
- Massimo Pio Loco
- 6 nov
- Tempo di lettura: 5 min
Di fronte all'ennesimo caso di femminicidio, la reazione collettiva è un'onda di sconcerto, incredulità e rabbia. La domanda che ci poniamo tutti, quasi un riflesso automatico di fronte all'orrore, è: "Come è potuto succedere ?".
Leggiamo le notizie, seguiamo le cronache, ma la comprensione di un atto così devastante ci sfugge, lasciandoci con un senso di impotenza. La verità è che la cronaca, pur necessaria, si ferma al "cosa", alla superficie degli eventi.
L'obiettivo di questa analisi è spostare il discorso dal "cosa" è accaduto al "perché" accade. Al di sotto del gesto finale, esistono dinamiche emotive profonde e progressive, che si sviluppano nel tempo all'interno di una relazione. Non si tratta di un atto criminale come un altro; è la manifestazione estrema di un collasso interiore e relazionale.
Questo articolo esplorerà le principali dinamiche attraverso la lente delle Discipline Analogiche Benemegliane, per sezionare il meccanismo che porta alla distruzione e offrire una comprensione più profonda di un fenomeno che non possiamo più permetterci di ignorare.

Contrariamente alla narrazione comune del "raptus" o del momento di follia, l'atto finale del femminicidio è l'esito di un processo che porta ad un "collasso dell'identità". La nostra identità non è statica, ma un sistema dinamico che si costruisce e si mantiene attraverso la "conferma" che riceviamo dagli altri, specialmente nelle relazioni affettive più intime.
Ci riconosciamo nello sguardo di chi amiamo.
Quando una partner decide di porre fine a una relazione, per l'uomo che ha basato la sua intera identità su quel legame, non si tratta solo di una separazione, ma di una "disconferma totale del sé". In questo stato, la ragione viene completamente "bruciata".
La capacità di valutare le conseguenze, come passare 30 anni in carcere, svanisce.
Questo spiega perché, anche in casi che appaiono premeditati, l'atto finale scatta solo nel momento della disconferma definitiva, quando ogni speranza di recuperare l'identità attraverso la relazione viene annientata.
L'unica logica che sopravvive è quella, perversa, di dover annullare la causa della propria disconferma totale per recuperare, in modo illusorio e distruttivo, la propria identità.
Non è un solo un raptus improvviso, ma il collasso di un'intera identità.
Il percorso che porta alla violenza letale passa attraverso un cambiamento di percezione cruciale: il passaggio dalla "delusione" al "fallimento" nella mente del perpetratore.
Nella fase iniziale della delusione, nonostante la rabbia, il controllo e i primi maltrattamenti, esiste ancora una speranza di recuperare il rapporto. La partner, pur essendo fonte di sofferenza, è ancora vista come un "oggetto del desiderio".
Il punto di non ritorno si verifica quando si entra nella fase del "fallimento".
Qui avviene un cambiamento radicale.
Questo non è un semplice cambio di umore; è una radicale ristrutturazione percettiva: la donna cessa di esistere come individuo e diventa la personificazione stessa del fallimento dell'uomo. Si trasforma da oggetto del desiderio ad "antagonista": non più la persona da riconquistare, ma la minaccia personificata al proprio sé, la causa del proprio annullamento.
La mentalità dominante diventa la "vendetta".
La donna è diventata "lo specchio della disconferma", e l'obiettivo non è più recuperare la relazione, ma eliminare fisicamente il simbolo del proprio tormento.
Il femminicidio non nasce dal nulla. È il culmine di un'escalation emotiva e comportamentale che segue un copione preciso, quasi sempre riconducibile a tre fasi distinte.
Riconoscerle è fondamentale per comprendere la gravità della situazione prima che sia troppo tardi.
1. Fase 1: La Conferma. È l'inizio della relazione, un periodo caratterizzato da fusione, fiducia e spesso da un intenso "love bombing". L'uomo inonda la partner di attenzioni per creare un legame di dipendenza e ottenere da lei quella conferma del sé di cui ha un bisogno vitale. In questa fase, tutto appare perfetto.
2. Fase 2: La Delusione. Inevitabilmente, il love bombing cala. Quando la partner inizia a riprendere i propri spazi o a manifestare dissenso, l'uomo percepisce le prime crepe come una minaccia. A questo punto reagisce con "accanimento": scattano la rabbia, la gelosia ossessiva, il controllo e i primi maltrattamenti. Questi comportamenti non sono solo campanelli d'allarme; sono un disperato tentativo, alimentato dalla speranza, di forzare la partner a ridargli quella conferma che sente di stare perdendo.
3. Fase 3: Il Fallimento. Questa è la fase prodromica all'atto finale. La relazione è ormai finita, o percepita come tale. La speranza è svanita e ha lasciato il posto a un unico pensiero dominante: la vendetta contro quella che ormai è vista unicamente come l' "antagonista", la causa della propria distruzione identitaria.
"Perché non lo ha lasciato prima ?"
La risposta è nei "sigilli" emotivi.
È una delle domande più comuni e colpevolizzanti rivolte alle vittime.
La risposta, però, non è semplice come appare dall'esterno. Spesso si presume che i vincoli siano di natura pratica, ma la realtà è un'altra: i vincoli economici sono meno forti dei vincoli emotivi. La vittima non è debole, ma è "intrappolata" da potentissimi legami emotivi, che possiamo definire "sigilli". Questi la bloccano in un circolo vizioso da cui è estremamente difficile uscire.
Tra i sigilli più comuni troviamo:
• Il senso di colpa: specialmente in presenza di figli ("è il padre dei miei figli, non posso distruggere la famiglia").
• La paura dell'abbandono: una paura profonda che la rende vulnerabile alle manipolazioni.
• La disistima: la continua svalutazione subita la convince di non valere nulla ("cosa farò senza di lui ? Non sono capace").
• L'illusione del cambiamento: la speranza, alimentata da false promesse, che lui possa cambiare ("cambierà, è stato solo un momento di rabbia").
La vittima si trova bloccata in un sistema di condizionamento emotivo.
Spesso, è stata selezionata proprio per le sue vulnerabilità, che la rendono incapace di spezzare le catene e mettersi in salvo..
La vera prevenzione non è solo una legge, ma un'educazione che parte da noi stessi.
Le leggi e le misure di protezione sono indispensabili, ma agiscono quando il danno è già in corso. La vera prevenzione, quella a lungo termine, parte da un livello molto più profondo: l'educazione affettiva che riceviamo, o non riceviamo, fin dall'infanzia.
La radice del problema risiede spesso in una mancata capacità di autoregolazione emotiva, che si impara in famiglia.
Un genitore, per essere efficace, deve prima di tutto compiere un lavoro su se stesso: riconoscere la propria storia affettiva, elaborare le proprie "ferite" e imparare a gestire le proprie emozioni. Solo così può trasmettere ai figli gli strumenti per gestire i turbamenti interiori. La vera prevenzione, quindi, consiste nel dare ai figli gli strumenti per costruire un'identità solida che non dipenda ossessivamente dalla conferma esterna, spezzando alla radice il meccanismo che porta al collasso identitario.
"l'ascolto autentico nasce soprattutto da chi ha imparato ad ascoltare se stesso".
Abbiamo esplorato l'abisso interiore che porta a questo gesto estremo.
La domanda finale è per ciascuno di noi: come possiamo imparare ad ascoltare in modo più autentico, prima di tutto noi stessi e poi gli altri, prima che il silenzio venga rotto dall'irreparabile ?
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